FILM GENNAIO 2013

Riprendiamo il 7 gennaio 2013 il cineforum

tutti i lunedì e martedì alle ore 15,30 nel pomeriggio e alle ore 21 la sera

Presentazione del film sia al pomeriggio che la sera del lunedì e la sera del martedì

Alle visioni serali seguirà un dibattitto

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ecco i film di GENNAIO
 

 

Il Velo dipinto

IL VELO DIPINTO lunedì 21 maggio ore 15,30 e ore 21 Un film di John Curran. Con Naomi Watts, Edward Norton, Liev Schreiber, Diana Rigg, Toby Jones. Titolo originale The Painted Veil. Drammatico,durata 125 min. - USA, Cina 2006 Kitty, una giovane donna della borghesia inglese in età da marito, sposa Walter Fane, un medico specializzato in batteriologia che nutre per lei un sentimento profondo. Dopo il matrimonio, contratto per compiacere la madre, Kitty si trasferisce con Walter a Shangai, dove, annoiata, cede alle lusinghe di sir Charles Townsend, vice console maritato e padre di due figli. L'adulterio viene presto scoperto da Walter che, ferito, decide di rivalersi conducendo la moglie al villaggio di Mei-tan-fu colpito da un'epidemia colerica. L'isolamento forzato e le condizioni di morte e miseria in cui versa la gente del villaggio, costringono Kitty a un esame di coscienza che getta sul marito una luce nuova. Commossa dall'amorevole dedizione con cui Walter giorno e notte assiste i malati, Kitty decide di appoggiare la sua missione e di rendersi utile in ospedale. In quel luogo sperduto impareranno ad amarsi e a perdonarsi. I romanzi di Maugham, scrittore britannico morto nel 1965, sono stati per anni la magnifica ossessione di Edward Norton. La sua scelta è poi ricaduta su "Il velo dipinto", già trasposto sullo schermo nel 1934 da Richard Boleslawski e interpretato, nello splendore del bianco e nero, da Greta Garbo. Il risultato è un film delicato che restituisce allo spettatore l'esperienza di una lettura diretta del libro, a cui rimane fedele, almeno nelle atmosfere e nei dialoghi. Il velo dipinto, che pure pecca indubbiamente di prevedibilità, può però contare sull’indiscusso talento di Maugham di creare personaggi veri ed umani. Mutuando questa peculiarità dello scrittore il film riscatta i limiti della propria trama ed evita sdilinquimenti amorosi fini a se stessi. Sottolinea invece senza abbellimenti le meschinità borghesi tanto care al romanziere e privilegia l’approfondimento psicologico e l’analisi delle dinamiche di coppia. Nella parte iniziale viene opportunamente scelto l’inserimento di flashback alternati al viaggio verso il villaggio cinese, per raccontare come i due protagonisti sono arrivati al matrimonio e, poi, alla decisione di partire. A questo punto inizia il percorso di maturazione della fatua Kitty, ma anche, in modo diverso, di suo marito Walter. In principio si osserva l’autodistruzione fortemente ricercata, quasi con fatalismo, da un uomo congelato nel proprio rancore, nella delusione, nel senso di colpa e di vergogna che la moglie gli ha inflitto rendendolo spietato e senza scrupoli. Nella sua incosciente leggerezza la protagonista diviene quasi, di fronte ad una vendetta fatta anche di ostentata indifferenza, una vittima dell’uomo che ha tradito e ferito. La sceneggiatura ha infatti la capacità di mostrare sempre tutte le prospettive, tutta l’ambivalenza di torti e ragioni, la reciprocità dei rancori e dei rimorsi. Gradualmente, dopo qualche lungaggine, subentrano l’accettazione l’uno dell’altro, con il passaggio dalla proiezione di desideri alla reale conoscenza e infine, nell’ordine, l’amore ed il perdono. La Kitty di John Curran è certamente più moderna e meno greve del suo doppio letterario. Su una cosa regista e scrittore sono d'accordo: l'infedeltà non comporta necessariamente la rovina. Basta s-velarsi e trovare la strada del perdono.

IL PICCOLO NICOLAS E I SUOI GENITORI

IL PICCOLO NICOLAS E I SUOI GENITORI lunedì 14 maggio ore 15.30 e ore 21 Titolo Originale: Le petit Nicolas Paese: Francia Anno: 2009 Regia: Laurent Tirard Sceneggiatura: Laurent Tirard, Grégoire Vigneron, Anne Goscinny, Alain Chabat Durata: 90' Interpreti: Maxime Godart, Valérie Lemercier, Kad Merad

Una piccola cittadina francese, inizio anni '60. Nicolas ha 8 anni, è un bambino sereno, vuol bene alla mamma e al papà ma anche alla maestra che è molto dolce. Poi un giorno un terribile sospetto: sta per arrivare un fratellino e a giudicare da quanto è accaduto ai suoi compagni, deve essere una esperienza terribile: rischia di venir abbandonato. Medita quindi con i suoi amici di far rapire il bimbo appena sarà nato. Intanto il padre cerca di mettersi in mostra davanti al suo capoufficio ma inutilmente; per fortuna la moglie ha un'ottima idea: invitare il capoufficio e consorte a una cena. Ma forse l'idea non è così buona come sembra... Nato dalla penna di René Goscinny, co-autore di Asterix e di Lucky Luke, e dal talento di Jean Jacques Sempé, nel marzo 1959 appare su "Soud Ouest Dimanche", il primo episodio della serie di racconti umoristici illustrati, che ha per protagonista un bambino che racconta in prima persona le proprie avventure. Qualche mese dopo Le petit Nicolas, fa la sua comparsa sul celebre periodico di fumetti d'oltralpe, "Pilote" e ben presto entra nella storia della letteratura moderna per l'infanzia. A cinquant'anni dalla nascita del personaggio, Laurent Tirard propone un adattamento della serie per il grande schermo. Uscito a fine settembre 2009 in Francia, Il piccolo Nicolas e i suoi genitori ha già registrato un record di incassi, ripetendo quel piccolo miracolo di diverso tempo prima. Il segreto della pellicola, come del resto della fortunata saga, consiste nel raccontare un universo filtrato dalla sensibilità e dalla fervida immaginazione infantile di uno scolaro e dei propri compagni. Nel dare corpo alla fantasia di Nicolas, il regista mette in scena una Francia degli anni Cinquanta stilizzata, sospesa nel tempo, irreale, dove non esistono criminalità, violenza, indigenza, dove tutt'al più qualche marachella non ha tuttavia gravi conseguenze. Un mondo che sorride delle incomprensioni tra grandi e piccini, che pone sullo stesso piano, le bravate dei ragazzini e le ansie di prestazione dei grandi, dove il caos creativo irrompe benevolmente in un universo fin troppo ordinato. Bravi gli attori nel dare vita ai piccoli eroi.

Angel e Tony


Lunedì 7 maggio
ore 15,30 e ore 21

ANGEL e TONY
Genere:Drammatico
Regia: Alix Delaporte
Interpreti: Clotilde Hesme (Angèle), Grégory Gadebois (Tony), Evelyne Didi (Myriam), Jérome Huguet (Ryan), Antoine Couleau (Yohan), Patrick Descamps (il nonno), Lola Duenas (Anabel).


In un paesino della Normandia, la giovane Angèl, condannata perchè ritenuta responsabile di un incidente costato la vita al marito, esce in libertà provvisoria ma non può prendersi cura del figlio che viene affidato dai giudici ai nonni paterni. Angèle cerca di riprendere i vecchi legami perduti. Per avere l'affidamento del figlio, nel frattempo lasciato in custodia ai nonni, cerca un contratto di lavoro e un uomo da sposare. Mette un annuncio sul giornale al quale risponde Tony, un marinaio del porto, ma durante il primo incontro i due non riescono a entrare in sintonia. Angèle non si rassegna e continua a insidiarlo: si sistema in una stanza a casa sua e comincia a lavorare anche lei al porto. Piano piano le due anime solitarie troveranno il modo per comprendersi e, forse, amarsi.

E' la cronaca, quanto mai aspra e sofferta, di un rapporto che nasce dal niente, cresce nell'incertezza e matura nella fiducia reciproca. Il copione scandisce con puntalità e misura i sottili e impercettibili cambiamenti che aprono spazi di sentimenti nei due protagonisti. La vitalità e la rabbia di Angèl devono misurarsi con il carattere ruvido di Tony, i suoi silenzi, il suo vivere concreto attaccato al lavoro sul mare. Dubbi, diffidenze, paure non prendono il sopravvento sulla volontà di verificare la possibilità di costruire qualcosa di buono. A dare convinzione e realismo a questo difficile scontro caratteriale interviene la messa in scena, esemplare per il taglio espressivo che unisce realismo e fiaba. La regista dimostra all'esordio un occhio acuto e sensibile nel rendere l'ambientazione parte importante nelle intermittenze del cuore e nell' ansioso diagramma degli affetti. I due personaggi principali hanno volti e corpi che riflettono ferite, strappi e voglia di ricominciare. Dal punto di vista pastorale, il film è da valutare come consigliabile, problematico e adatto per dibattiti.
Il film di Alix Delaporte ci induce ad ascoltare. La regia strutturata sui movimenti dell'anima impone un patto con lo spettatore: il rivelarsi calmo dei sentimenti richiede a chi sta ad osservare uno sforzo di concentrazione. È il presupposto per assaporare tutti gli sbalzi d'umore dei due protagonisti, raccontati con grazia da un'autrice indagatrice e puntigliosa ma saggiamente discreta.

Lezioni di cioccolato 2


Titolo Originale: Lezioni di cioccolato 2       
lunedì 30 aprile ore 15,30 e ore 21

Paese: ITALIA
Anno: 2011
Regia: Alessio Maria Federici
Sceneggiatura: Fabio Bonifacci       
Durata: 103
Interpreti: Luca Argentero, Hassani Shapi, Nabiha Akkari, Vincenzo Salemme, Angela Finocchiaro       
 
Mattia, che abbiamo conosciuto nel primo film della serie, è il solito geometra maldestro negli affari e volatile nei sentimenti, mentre l'amico egiziano Kamal, completato il corso alla Perugina, ha aperto una pasticceria ma i clienti sono pochi. Entrambi hanno bisogno di una svolta. Entrambi però si mettono di nuovo nei guai: Kamal, per ottenere dei finanziamenti, paga una tangente e rischia di venir incriminato; Mattia si innamora di una ragazza egiziana ma non sa che Nawal altri non è se non la figlia del suo amico...
 
Avevamo apprezzato il primo Lezioni di cioccolato per molti motivi: il modo divertente e positivo di mostrare l'incontro fra due culture; la progressiva maturazione di Mattia, in origine sessuocentrico e consumista, grazie anche all'amore per la saggia e bella Cecilia. Il film era stata la conferma delle buone doti di attore di Luca Argentero e la scoperta dell'irresistibile Hassani Shapi , sempre più apprezzato in Italia. Il pubblico aveva mostrato di apprezzare, per nulla spaventato dall'eccesso di product displacement della Perugina, con una buona risposta al botteghino.
Era quindi prevedibile un sequel che cercasse di rinnovare la formula conservandone tutti gli aspetti positivi. Per ripartire con una nuova storia d'amore a beneficio di Mattia è stata sacrificata Cecilia, la sua precedente fidanzata (Violante Placido) ed è entrata in campo la tunisina Nabiha Akkari , reduce dai successi di Che bella giornata; ritroviamo anche l'egiziano Kemal che questa volta è diventato il vero co-protagonista della storia. Anche la struttura narrativa è rimasta invariata, tutta incentrata sugli equivoci (Mattia si innamora di una bella egiziana, senza sapere che in realtà è figlia di Kamal). Per arricchire la storia è stato inserito come sub-plot un'altra storia contrastata: il timido Vincenzo Salemme, maître della Perugina, cerca di corteggiare la ruvida ma ansiosa Angela Finocchairo, commissario di polizia.
Forse è proprio questo il problema della seconda puntata Perugina: nel timore del vuoto narrativo si sono aggiunti personaggi non omogenei al racconto e nell'impegno di valorizzare l'egiziano Kamal si è smarrita la coerenza dei personaggio.
Il personaggio di Nawal si mostra capace di dirottare il frivolo Mattia verso un amore vero, che corrisponda a un impegno per tutta la vita.
Il film affronta senza reticenze il tema dei rapporti prematrimoniali: se per Mattia la convivenza è un passaggio obbligato prima del matrimonio per "conoscersi meglio", Nawal gli prospetta, coerentemente con la sua tradizione, una visione diversa: è la decisione di sposarsi e di stare insieme per la vita che ha come suggello l'unione fisica .
A dire il vero il gesto di Nawal, più che un'intima convinzione sulla verità del matrimonio (lei stessa riconosce che avrebbe volentieri accettato la proposta del ragazzo, se non fosse stata trattenuta dal dovere di rispettare il volere del padre) appare un retaggio tutt'ora forte di tradizioni nazionali e famigliari.
Il colloquio confidenziale fra Mattia e il suo assistente Vito, che ricorda la sua giovinezza e il suo matrimonio con una ragazza rigorosamente illibata confermano la tendenza a considerare la castità matrimoniale un retaggio del passato o tradizioni di società diverse dalla nostra.
Ma tant'è, il comportamento finale è quello giusto.

MIRACOLO a LE HAVRE


MIRACOLO a LE HAVRE
lunedì 23 Aprile ore 15,30 e ore 21

Titolo Originale: Le Havre

Paese: Francia, Finlandia, Germania

Anno: 2011

Regia: Aki Kaurismäki

Sceneggiatura: Aki Kaurismäki

Durata: 93

Interpreti: André Wilms, Kati Outinen, Jean-Pierre Darroussin, Blondin Miguel

All'inizio del film il lustrascarpe Marcel e un suo collega vietnamita sono fermi alla stazione in attesa di clienti . Loro non guardano i volti delle gente che passa oltre frettolosa, ma i loro occhi sono fissi sulle loro scarpe, nella ansioso sforzo di individuare quelle di cuoio invece che le solite scarpe in materiale sintetico.
E' una annotazione minuta che fa il regista, la prima delle tante: nel micrococosmo in cui si svolge buona parte del film (la modesta casa in cui vive Marcel con la moglie Arletty, la panetteria, il bar e il negozio di frutta accanto a loro) l'attenzione si concentra sui piccoli gesti di ogni giorno: cucinare un uovo, lustrare le scarpe, mettere il modesto guadagno giornaliero in una scatola di latta nel cassetto della credenza, aprire l'armadio dove ci sono non più di due o tre vestiti.
E' un processo di semplificazione del linguaggio filmico che l'autore compie perché non è un fatto di cronaca che ci vuole raccontare (i presupposti ci sarebbero tutti: il fenomeno sempre attuale del flusso di clandestini che da Le Havre vogliono recarsi in Inghilterra) ma una novella gentile fuori del tempo. Anche il montaggio e le musiche hanno un gusto vintage e ricordano certi film a lieto fine degli anni '50

La semplificazione del fondale ha inoltre il vantaggio di porre in risalto i vari personaggi e ciò che senza troppe parole vogliono esprimerci.

La solidarietà matrimoniale e la benevolenza con i vicini di strada sono gli atteggiamenti predominanti.
Quando Marcel torna a casa la sera stanco e va a letto, Arletty si attrada a stirargli quel'l'unico vestito da lavoro e a lucidargli le scarpe, in modo che questo suo "marito bambino, mai cresciuto" possa trovarli già pronti per il giorno successivo. L'arrivo in casa di un bambino di colore scappato alla polizia innesca la solidarietà dei vicini: se Marcel va fino a Calais per trovare il nonno del ragazzo, la barista e la panettiera sono pronti ad offrire i loro risparmi per consentirgli di andare in Inghilerra dove l'attende la madre. Lo stesso ispettore di polizia, che conosce bene gli abitanti del quartiere, non esita ad avvisarli prima che arrivi un'ispezione dei gendarmi dell'immigrazione.
Una tale armonia umana non può che essere feconda: la stessa natura vi partecipa (il ciliegio del loro piccolo giardino è ormai forito) ed anche lo stesso Cielo (forse un miracolo) esulta


Un cast di attori franco-finlandesi, con le facce e le fogge da polar melvilliano, interagiscono in quel di Le Havre in un quartiere dove ancora “buongiorno vuol davvero dire buongiorno”, per usare – assolutamente non a caso - una frase di Miracolo a Milano, di De Sica e Zavattini. Eppure, la battuta più bella ed emblematica del film è proprio: “restano i miracoli”, dice il dottore, “non nel mio quartiere”, chiosa Arletty. È tutto qui il miracoloso (questo sì) nodo di poesia e disincanto, ottimismo e amarezza di cui è fatto Le Havre , uno dei migliori Kaurismaki in assoluto. Il finale si preoccuperà poi di illuminare il concetto, con uno splendido e improbabile ciliegio in fiore: un altro mondo è possibile o ci vorrebbe davvero un miracolo perché una storia come quella di Idrissa accadesse nella realtà? Entrambe le cose, sembra dire il regista: il cancro che affligge il nostro modo di vivere e di agire è a un livello più che mai avanzato, ma “restano i miracoli”.

UNA SEPARAZIONE


Lunedi 16 Aprile 2012 ore 15.30 e ore 21.00

UNA SEPARAZIONE
La fedeltà coniugale
Orso d'oro al Festival di Berlino, Oscar 2012 come miglior film straniero
Titolo Originale: Jodaeiye Nader az Simin

Paese: IRAN

Anno: 2011

Regia: Asghar Farhad

Sceneggiatura: Asghar Farhadi

Produzione: Asghar Farhadi

Durata: 123

Interpreti: Sareh Bayat, Sarina Farhadi, Peyman Moadi, Babak Karimi, Ali-Asghar Shahbazi

Simin vuole divorziare dal marito Nader perché l’uomo, per assistere il padre malato d’Alzheimer, ha deciso di rimanere in Iran anziché espatriare con la moglie e la figlia di undici anni. I due si amano ancora, ma per ripicca Simin si trasferisce dai genitori, lasciando soli la figlia e il marito con l’anziano malato. Nader deve assumere Riazeh, una donna incinta che lavora come badante di nascosto dal marito, rigido osservatore della Shari’a.
Un giorno Riazeh lega l’anziano al letto e si allontana. Nader ritorna con sua figlia e trova il padre legato, in stato di shock. Al rientro della badante, furioso, la allontana, spingendola fuori dalla porta. La sera stessa viene accusato di aver causato la morte del figlio che Riazeh aspettava, avendola fatta cadere sulle scale. È l’inizio di una guerra di tutti contro tutti, giocata in tribunale, tra menzogne e ipocrisie.

Nader e sua moglie Simin stanno per divorziare. Hanno ottenuto il permesso di espatrio per loro e la loro figlia undicenne ma Nader non vuole partire. Suo padre è affetto dal morbo di Alzheimer e lui ritiene di dover restare ad aiutarlo. La moglie, se vuole, può andarsene. Simin lascia la casa e va a vivere con i suoi genitori mentre la figlia resta col padre. È necessario assumere qualcuno che si occupi dell'uomo mentre Nader è al lavoro e l'incarico viene dato a una donna che ha una figlia di cinque anni e ed è incinta. La donna lavora all'insaputa del marito ma un giorno in cui si è assentata senza permesso lasciando l'anziano legato al letto, un alterco con Nader la fa cadere per le scale e perde il bambino.
Asghar Faradhi conferma con questo film le doti di narratore già manifestate con About Elly. Non è facile fare cinema oggi in Iran soprattutto se ci si è espressi in favore di Yafar Panahi condannato per attività contrarie al regime. Ma Faradhi sa, come i veri autori, aggirare lo sguardo rapace della censura proponendoci una storia che innesca una serie di domande sotto l'apparente facciata di un conflitto familiare. Il regista non ci offre facili risposte (finale compreso) ma i problemi che pone sono di non poco conto per la società iraniana ma non solo. Certo c'è il quesito iniziale non di poco conto: per un minore è meglio cogliere l'opportunità dell'espatrio oppure restare in patria, soprattutto se femmina? Perchè le protagoniste positive finiscono con l'essere le due donne. Entrambe con i loro conflitti interiori, con il peso di una condizione femminile in una società maschilista e teocratica ma anche con il loro continuo far ricorso alla razionalità per far fronte alle difficoltà di ogni giorno. Agghiacciante nella sua apparente comicità agli occhi di un occidentale è la telefonata che la badante fa all'ufficio preposto ai comportamenti conformi alla religione per sapere se possa o meno cambiare i pantaloni del pigiama al vecchio ottantenne che si è orinato addosso. Sul fronte opposto della barricata finiscono per trovarsi gli uomini che, o sono obnubilati dalla malattia oppure finiscono con l'aggrapparsi a preconcetti che impediscono loro di percepire la realtà in modo lucido. Ciò che va oltre alla realtà iraniana è l'eterno conflitto sulla responsabilità individuale nei confronti di chi ci circonda. Ognuno dei personaggi vi viene messo di fronte e deve scegliere. Sotto lo sguardo protetto dalle lenti di una ragazzina.
Una nota a margine: il cinema iraniano è veicolo stabile di una falsificazione narrativa che sta a priori di qualsiasi sceneggiatura. Sussistendo il divieto per le donne di mostrarsi a capo scoperto in pubblico i registi sono obbligati a farle recitare con chador o foulard vari anche quando le scene si svolgono all'interno delle mura domestiche narrativamente in assenza di sguardi estranei stravolgendo quindi la rappresentazione della realtà

La bottega dell'Orefice


Lunedi 2 Aprile ore 15.30 e ore 21.00

La bottega dell'Orefice tratto dall'omonima opera scritta dal Beato Karol Wojtyla - Giovanni Paolo II

LA BOTTEGA DELL'OREFICE

Paese: ITALIA, CANADA
Anno: 1998

Regia: Michael Anderson

Sceneggiatura: Jeff Andrus, Mario Di Nardo dal romanzo omonimo di KAROL WOJTYLA

Interpreti: Burt Lancaster, Andrea Occhipinti, Olivia Hussey

E' la storia di due coppie, di due matrimoni, di due amori diversi, che si agitano sullo sfondo della Seconda Guerra Mondiale e degli scempi nazisti. Ma La bottega dell'orefice è soprattutto un'intensa metafora delle nozze, unione eterna e indissolubile, che deve vincere la fragilità dei sentimenti umani.


Karol Wojtyła nell’opera filosofica come nell’espressione poetica si è sforzato di congiungere la dimensione etica con quella estetica.
In occasione della Beatificazione di Giovanni Paolo II Rai Cinema, attraverso la 01 Distribuzione, edita di nuovo in DVD il film La bottega dell’orefice, adattato per lo schermo da Michael Anderson nel 1987, ricavato dall’omonima opera narrativa di Wojtyła.
Nel 1958 Wojtyła era stato nominato vescovo ausiliare di Cracovia, ed era nel pieno della maturità di studioso e insegnante universitario. Due anni dopo pubblicava un’opera filosofica fondamentale per il proprio percorso intellettuale, Amore e responsabilità, accompagnata da La bottega dell’orefice, versione poetica della medesima problematica.
I due testi, dissimili ma uniti dalla stessa visione, vertono sulla responsabilità dell’amore coniugale. Quindi riflessione etica e rappresentazione artistica nell’itinerario wojtyliano si intrecciano profondamente, completandosi. Prima del sacerdozio Wojtyła aveva mostrato una vera e propria passione per le arti, in particolare per la letteratura e il teatro, tanto da meditare di dedicarsi a tempo pieno nell’attività drammaturgica. Entrato nell’Università Jaghellonica nel 1938, si era orientato verso la filologia polacca.
Scrive nella sua autobiografia Dono e Mistero (Libreria Editrice Vaticana, 1996): «A proposito degli studi, desidero sottolineare che la mia scelta della Filologia polacca era motivata da una chiara predisposizione verso la letteratura. Tuttavia, già durante il primo anno, attirò la mia intenzione lo studio della lingua stessa. Studiavamo la grammatica descrittiva del polacco moderno ed insieme l'evoluzione storica della lingua, con un particolare interesse per il vecchio ceppo slavo. Questo mi introdusse in orizzonti completamente nuovi, per non dire nel mistero stesso della parola. La parola, prima di essere pronunciata sul palcoscenico, vive nella storia dell'uomo come dimensione fondamentale della sua esperienza spirituale. In ultima analisi, essa rimanda all’imperscrutabile mistero di Dio stesso». L’arte, la parola, il linguaggio. Tutta l’opera successiva di Wojtyła sarà segnata da quella giovanile esperienza, interrotta dall’occupazione tedesca della Polonia nel 1939, dalla chiusura dell’Università Jaghellonica e dal trasferimento del corpo docente in campo di concentramento. Il teatro e la frequentazione della letteratura, specialmente quella tragica, tiene vivo nel giovane Wojtyła l’interesse per l’arte.

Nell’estate del 1939 si apre La bottega dell’orefice. Quattro ragazzi, due donne e due uomini, Anna e Teresa, Andrea e Stefano, si recano ad un campo estivo. L’aria è pesante. La guerra con la Germania nazista viene ritenuta imminente. Al cinema le immagini dei cinegiornali fanno paura. I nazisti marciano ovunque: quale sarà la prossima vittima? La Polonia, non ci sono dubbi. Anna e Stefano e Teresa e Andrea decidono, nonostante tutto, di sposarsi. Stefano e la moglie espatriano in Canada, aiutati da un parente. Andrea, invasa la Polonia, parte per il fronte, perdendo la vita. Il tempo d’amore di una coppia è stato brevissimo, nonostante Teresa sia rimasta incinta, e dia alla luce Cristoforo. Quello di Anna e Stefano, invece, è lungo, fortunato (il marito si afferma come medico), modellato sugli stili di vita canadesi, e arricchito da tre figli, la cui primogenita Monica è coetanea di Cristoforo. Teresa, nonostante la vedovanza, si è affermata come pianista, ed emigra anche lei in Canada.
Il tempo trascorre, i figli crescono. Le loro esistenze sono al riparo dalla nuova disgrazia abbattutasi sulla Polonia: il comunismo. Il matrimonio di Teresa è stato fermato dalla guerra: quello di Anna si ritrova inaspettatamente sull’orlo della rottura.
Indifferenza, incomprensione, freddezza, scomparsa dell’affetto, reciproco egoismo, fanno naufragare la comunione famigliare. La vita non è facile, per nessuno. Monica e Cristoforo, siamo arrivati al 1962, decidono di sposarsi, e celebrano le nozze a Cracovia, città dei loro genitori. L’orefice menzionato nel titolo, interpretato dal maestoso e vecchio Burt Lancaster, è una figura irreale, metafisica, priva di tempo. Ha venduto le fedi prima ai genitori, poi ai figli, è apparso nei momenti cruciali delle loro esistenze intrecciate. E dopo aver chiuso la vecchia bottega di Cracovia, esce in strada e pronuncia queste parole: «il futuro dipende dall’amore».
Quando non riesce ad amare l’uomo si corrompe. Questa semplice constatazione regge l’impalcatura filosofica di Amore e responsabilità, ed è la semplice evidenza di La bottega dell’orefice. La vita, in fondo, nell’universo wojtyliano, somiglia ad un’opera d’arte. Il suo mistero può essere scandagliato nelle pieghe più complesse di pensiero, ragionamento, analisi. Ma può essere anche esplicitato nel realismo del fatto concreto, del vissuto personale, così come viene tradotto in scena dall’arte, dal dramma, dalla poesia, dalla letteratura, dal cinema.
Al sacerdote spetta il compito di indirizzare, essere presente, ricordare la verità agli uomini, soffrire e condividere le umane disgrazie. Poi sono loro che debbono decidere come comportarsi eticamente; a loro spetta trarre dalle difficoltà poste dall’esistenza il senso autentico della vita, al tempo stesso umano e divino.

Il dramma epocale della nazione che segnò Karol Wojtyła è lo sfondo entro il quale si muovono sei esseri umani e due generazioni. L’uomo, il professore, il sacerdote, il pastore che divenne Giovanni Paolo II amò l’arte, senza alcuna distinzione disciplinare. La frequentò attivamente, la difese da corruzioni nichiliste e secolarizzanti. Ci ha lasciato un patrimonio filosofico e poetico che col passare degli anni non è invecchiato. Leggere Amore e responsabilità e La bottega dell’orefice nella versione originale, vedere la trasposizione cinematografica che ne rispetta l’essenza morale, ne è ancora oggi, a mezzo secolo di distanza, una limpida dimostrazione.

IL CANTICO DI MADDALENA



IL CANTICO DI MADDALENA
ore 15,30 e ore 21
lunedì 26 marzo


Genere: Commedia, Drammatico
regia: Mauro Campiotti
sceneggiatura: Mauro Campiotti, Erica Cattaneo
casting director: Pietro Sarubbi
consulente storico: Maria Gloria Riva
fotografia: Alberto Livraghi
costumista: Francesca Piotti
scenografa: Francesca Romano
musica: Marco Marcuzzi
audio presa diretta: Sandro Broggini
aiuto regista: Leo Fiorica
assistente regia: Davide Lomma
montaggio: Michela Menichelli
produttore esecutivo: Raffaello Saragò

Il cantico di Maddalena è “una sfida produttiva” resa possibile dall’incontro tra MAUCA FILM (casa di produzione indipendente lombarda) e le suore dell’Ordine dell’Adorazione Perpetua di San Francisco che da circa 20 anni intendevano realizzare un film sulla vita e le opere della loro Fondatrice: Caterina Sordini.

La vicenda umana e storica di Caterina Sordini (1770-1824) è di straordinaria intensità e nessuno prima l’aveva raccontata al cinema. Le tappe del cammino spirituale interiore che portano la giovane ragazza toscana ad una conversione sempre più gioiosa e radicale (la scelta della clausura, la fondazione dell’Ordine delle Adoratrici Perpetue), si intersecano agli avvenimenti della storia e della cultura del tempo che vedono la chiesa attraversare momenti difficili: le vittorie di Napoleone, l’arresto di papa Pio VII, l’affermarsi della visione illuministica; eventi di cui Caterina, divenuta Madre Maria Maddalena, fu osservatrice attenta e formidabile interprete.

Caterina Sordini, nota già al suo tempo per le azioni miracolose e la capacità profetica, è stata beatificata da papa Benedetto XVI nel 2009. Il cantico di Maddalena è un’occasione per entrare in contatto con la storia e il carisma della Santa, ancora oggi testimoniato in tutto il mondo nell'attività dell'Ordine delle Adoratrici Perpetue da lei fondato.

Il personaggio di Caterina Sordini è interpretato nel film da Silvia Ferretti, attrice di origine romana, che ora vive a Milano dove ha lavorato per alcuni anni al Teatro Carcano affrontando Pirandello e Shakespeare diretta da Giulio Bosetti. Al cinema è stata interprete per Marco Bellocchio in Sorelle mai (2010) e Vincere (2009).
Il film vede la partecipazione straordinaria di Pietro Sarubbi nella parte del Commissario Milanesi e di Elisabetta Pellini nel ruolo della novizia Clementina.

Il film, originariamente registrato in presa diretta e recitato in inglese è stato solo successivamente doppiato in spagnolo e italiano.


LA STORIA

Caterina Sordini nasce a Porto Santo Stefano da famiglia benestante. Viene battezzata mentre un volo di tortorelle bianche si libera nel cielo dell’Argentario. La bambina è vivace al punto di perdersi all’età di cinque anni tra le rocce che scendono a picco sul mare. L’angoscia dei famigliari è grande e quando Caterina viene ritrovata gravemente ferita agli occhi, la disperazione assale la madre. Contrariamente ad ogni ragionevole e drammatica diagnosi medica, la bambina guarisce e corre verso l’adolescenza maturando nella bellezza fisica ed interiore. Felicemente fidanzata ed ormai prossima alle nozze, la giovane Sordini ha la visione di Cristo nello specchio della propria stanza che la invita a seguirla.
Lo sconvolgimento è totale, la provocazione troppo forte per non mettere in discussione tutta l’esistenza. Caterina lascia il fidanzato e sceglie la clausura presso il Monastero di Ischia di Castro. Non sempre e non tutto, nella vita del convento sembra facilitare il percorso di fede della giovane. Ma il rapporto con il Mistero cresce fino alla nuova grande visione in refettorio. Anche l’autorità religiosa è costretta a verificare gli accadimenti narrati dalla Badessa Caterina ora Madre Maria Maddalena. Le sue estasi premonitrici trovano riscontro nella realtà. La vittoria di Napoleone, l’arresto di Pio VI, l’avanzata del positivismo illuminista, la sfida culturale che la sua fede richiede, sono aspetti e fatti che la vedono impegnata in prima persona per ottemperare alla richiesta di Cristo: la fondazione dell’Ordine delle Adoratrici Perpetue. Con ostinazione Maddalena si batte per scrivere la regola, ma il traditore è in agguato. Quando Roma è in mano ai giacobini, il nemico sferra il suo attacco. Così, il nuovo convento viene perquisito e chiuso, Madre Maddalena arrestata, processata. Accusata di essere spia e prostituta viene condannata all’esilio a Firenze. Ma dalla sconfitta nasce il germoglio nuovo che conferma la profezia. Maddalena ritorna a Roma più forte di prima circondata da giovani fiorentine che hanno deciso di seguirla per continuare l’esperienza della preghiera adorante e della clausura.
Tutto era stato predetto: il ritorno del Santo Padre, la sconfitta di Napoleone la nascita del nuovo Ordine e la morte al cadere delle foglie.

7KM da GERUSALEMME



7KM da GERUSALEMME

Lunedì 19 marzo ore 15,30 e ore 21
Nella visione delle ore 21 presenterà il FILM l'autore del romanzo
PINO FARINOTTI



Genere: Drammatico
Regista: Claudio Malaponti
Attori: Luca Ward (Alessandro Forte), Alessandro Etrusco (Gesù), Rosalinda Celentano (Sara), Alessandro Haber (Angelo Profeti), Eleonora Brigliadori (Marta Piano), Emanuela Rossi (Ginevra Santi), Isa Barzizza (Elvira Marenghi), Pino Farinotti (Cesare Piano), Alessandra Barzaghi (Martina Marenghi), Paolo Limiti.
Soggetto:
Alessandro Forte è un pubblicitario in crisi privata e professionale. Un biglietto aereo che giunge nelle sue mani in modo del tutto inatteso, lo spinge a recarsi a Gerusalemme. Qui, su una via al di fuori della città, farà l'incontro con un uomo che afferma di essere Gesù. Alessandro non gli crede ma non per questo rinuncia al dialogo Cominciando a parlare con lui, tra stupore e scetticismo, Forte pensa di doversi ricredere e comincia a riandare con la memoria ad alcuni avvenimenti della propria vita professionale e privata: un'amica, Sara, che sta per morire; una presentatrice televisiva, Ginevra, che vuole provocare il pubblico; una coppia formata da Marta, costretta sulla sedia a rotelle, e dal marito Cesare; la sua stessa situazione di separato dalla moglie e dalla figlia piccola. Quando colui che dice di essere Gesù scompare, tutte queste situazioni trovano una loro, impensata ricomposizione finale. E ora Alessandro sa che da lassù gli sono arrivati dei segnali.
Valutazione Pastorale:
Diciamo subito che, come spesso accade per film tratti da libri, il libro in questione, di Pino Farinotti, è di gran lunga meglio del film: è un libro avvincente e coinvolgente, da leggere assolutamente.
Il film ne riprende alcuni episodi, ne mantiene alcuni dialoghi (ma altro è il linguaggio scritto, altro quello parlato!), finendo per essere a volte semplicistico altre retorico.
Ciononostante, è comunque un film che vale la pena vedere e che dice cose discutibili ed interessanti
Raoul Follereau (grande figura del laicismo impegnato sul fronte della cura delle malattie endemiche) intitolò un suo libro "Se un giorno Gesù bussasse alla vostra porta lo riconoscereste?". Il Cristo di Malaponti (dal romanzo omonimo di Pino Farinotti, tradotto in diversi Paesi) fa di tutto per farsi 'riconoscere'. Si veste addirittura (e lo fa consapevolmente) così come l'iconografia entrata nell'immaginario popolare lo ha raffigurato da secoli. Ma l'uomo resiste come sa e può
Alessandro è un pubblicitario di successo, sa 'vendere' (e si chiede, come il Giuda di Jesus Christ Superstar, perché il Messia non sia venuto oggi sulla Terra sfruttando i media per lanciare il suo messaggio) ma non ha smesso, a suo modo, di interrogarsi ponendosi le domande di un uomo del suo tempo. Lo fa però nascondendosi dietro l'incredulità di chi ne ha viste troppe per lasciarsi ingannare dal primo venuto. Il Gesù che incontra su una via nel deserto (solo facendo il vuoto intorno si può provare ad 'ascoltare') non è un predicatore intenzionato a fare proseliti (giunto sulle rive, ormai inquinate dai rifiuti, del Giordano battezzerà nuovamente se stesso e non chi è con lui). È invece un compagno di strada pronto a liberare, grazie a una sorridente ironia, la sua figura e missione dalle scorie culturali accumulatesi nei secoli.
Ha però bisogno dell'uomo, di un uomo che ha vissuto il dolore di una separazione, che conosce la perdita degli affetti più cari, che vive in un mondo in cui dominano la falsa solidarietà e i grandi ideali proclamati a parole da conduttrici televisive la cui autostima è pari solo alla loro ignoranza. Un uomo però che è anche attore o testimone di piccoli gesti di solidarietà e di rinunce compiute per umana coerenza.
Luca Ward (nonostante la parte finale del film in cui la sceneggiatura vuole 'chiudere' troppe situazioni che sarebbe stato meglio affidare alla libera lettura dello spettatore) sa dare al personaggio di Alessandro la giusta dose di scetticismo misto a umanità così come Alessandro Etrusco riesce ad evitare qualsiasi cenno di ieraticità posticcia al suo Gesù.
Dice il regista Malaponti: "Il film intende essere un ragionamento sulla condizione dell'uomo occidentale (...) partendo da un presupposto laico, attraversa la religione cattolico-cristiana in un tentativo di attenzione, una speranza verso un destino che va considerato e ricomposto". Le intenzioni, per quanto già viste e sentite in molte circostanze, sono dunque valide e incoraggianti. Ed é vero che la parte, per così dire, descrittiva (ossia i casi raccontati) ha indubbi agganci con la realtà. Quello che manca, alla fine, é la capacità di sostenere il copione sotto il profilo drammaturgico-esistenziale. L’ambientazione non è in Terra Santa, come si racconta, ma in Siria: per chi ha visto i luoghi santi è una delusione (il Giordano non è l’immondezzaio l’Eufrate; Gerusalemme non è Palmira….), per chi non c’è stato forse può bastare così….
Alcuni riferimenti alla realtà sono un po’ superficiali (la sindone del ladrone…. Le citazioni su padre Pio….).

Il LIBRO di Pino Farinotti
Farinotti è riuscito a dare vita a un Cristo ricco di umanità, una persona semplice che non parla con saccenza e pedanteria, un Gesù che ammette addirittura di non essere stato un «bravo falegname», ma un tipo piuttosto distratto, ben lungi dal mostrarsi un Dio irraggiungibile e lontano. Questa vicinanza all’umano e la schiettezza e la simpatia che dimostra ne fanno un personaggio giovane, che in modo
scanzonato e anticonformista può far arrivare a tutti, adulti e giovani, uno dei messaggi-chiave della religione cattolica: la speranza.

GRAN TORINO

Lunedì 12 marzo ore 15.30 e ore 21



Titolo Originale: Gran Torino

Paese: USA
Anno: 2009

Regia: Clint Eastwood

Sceneggiatura: Nick Schenk

Durata: 117'
Interpreti: Clint Eastwood, Geraldine Huges, Brian Haley

Walt Kowalski, un veterano della guerra di Corea con un carattere ruvido e un pessimo rapporto con i figli ormai grandi e lontani, resta solo dopo la morte dell’adorata moglie Dorothy. Rifiuta le profferte di amicizia del giovane prete a cui lo aveva affidato la moglie in punto di morte, ma viene suo malgrado coinvolto nelle disavventure dei vicini di casa coreani quando il giovane Thao viene costretto da una gang di quartiere a tentare di rubare la Gran Torino 1972 a cui Walt è maniacalmente attaccato. La sua prima reazione è quella di prendersela violentemente con il ragazzo, ma poi Walt si trova inaspettatamente a difendere la sorella di Thao, Sue, e si guadagna così la stima di tutti gli asiatici del quartiere. È l’inizio di un coinvolgimento sempre più profondo in cui Walt vedrà messa i discussione tutta la sua visione del mondo.

Rimasto privo di quest’ancora nei confronti della vita e del mondo esterno, Walt vede i suoi stessi cari (figli ben poco amorevoli con mogli egoiste, nipoti con piercing e tatuaggi che guardano le sue decorazioni con sufficienza e derisione) come degli estranei né apprezza il tentativo di amicizia offerto dal giovane prete della parrocchia cui si scopre, volente o nolente, affidato in punto di morte dalla moglie.

Il mondo che lo circonda, poi, è inesorabilmente cambiato e Walt si trova attorniato da persone di razze e culture diverse dalla sua, persone che non sa e non vuole capire, ma che non fanno che accrescere il suo risentimento.
È così che il suo sguardo incattivito e sempre pieno di disprezzo si posa con ostilità anche sulle case di un vicinato che lui si rifiuta di lasciare, ormai abitate praticamente solo da stranieri, soprattutto asiatici e coreani, che a Walt rievocano gli anni peggiori della sua vita, quelli della guerra e della violenza che solo la vicinanza di Dorothy gli aveva permesso di esorcizzare.

Gente di cui non capisce la lingua e tanto meno gli usi, ma recepisce la trascuratezza nel prendersi cura delle loro proprietà, un delitto capitale per uno come Walt, che ha un garage pieno di attrezzi in perfetto ordine e una macchina d’epoca perfettamente funzionante e lucidata (ma mai utilizzata...). Guarda caso nella villetta accanto vive una famiglia priva di un capo famiglia e perciò vittima delle angherie di una gang giovanile di conterranei, decisi ad avviare al crimine il giovane e indifeso Thao, sottraendolo alla madre, alla nonna e soprattutto all’energica sorella.

Come nelle migliori storie un evento drammatico (la prova di iniziazione a cui viene sottoposto il giovane coreano, rubare la macchina di Walt) mette inesorabilmente in contatto questi due mondi con esiti imprevedibili.

Walt, infatti, come rifiuta ostinatamente gli approcci del sacerdote (una figura che inaspettatamente Eastwood descrive con realismo e simpatia, dandogli tocchi di verità anche sotto l’aspetto della cura pastorale e amicizia umana che dedica al coriaceo Kowalski) inizialmente cerca di sottrarsi al rapporto sempre più profondo che si intreccia con i vicini di casa e attraverso di loro con tutto il quartiere di cui, cedendo al suo naturale amore per l’ordine e la giustizia, Walt finisce per diventare il “protettore”.

Poi però, come una vera e propria grazia, il vecchio che ringhia riscopre il piacere di prendersi cura delle persone e di lasciare che altri si prendano cura di lui, di insegnare da padre (come non ha saputo essere per i suoi figli: memorabile, seppur un po’ greve, la lezione di mascolinità al giovane Thao tenuta con la collaborazione dell’amico barbiere).
Ma la lezione dovrà passare anche dalla messa in discussione della propria filosofia di vita (tanto simile a quella dei vecchi Callaghan interpretati da Eastwood), improntata a un rigoroso dente per dente, in cui l’uso delle armi e della violenza, seppur a fin di bene, è consentito. Così mentre Walt si avvicina finalmente al sacramento della confessione, allo stesso tempo comprende che la sua ultima sfida per salvare la vita e il futuro della sua nuova famiglia esige un ripensamento totale di se stesso e un difficile sacrificio (la cui natura è allusa nell’immagine finale di Walt sul luogo della resa dei conti con la gang coreana che non vogliamo anticipare).

In Million Dollar Baby Eastwood aveva ritratto la figura in ultimo “dannata” di un uomo che si riscopre padre solo per ritrovarsi incapace di stare al fianco d una figlia adottiva tragicamente provata dalla vita. Qui, invece, ritrae e incarna, senza farsi mancare tocchi di umorismo e grande profondità, il suo Walt Kowalski con un salto di qualità in positivo. Un uomo duro e aggressivo (eppure consapevole di aver avuto il dono di una moglie capace di tenerlo attaccato alla vita e al suo valore), ma fondamentalmente giusto, che a poco a poco impara a riaprirsi alla vita e alla speranza (rappresentata anche dalla confessione), fino a comprendere ed accettare un cambiamento più profondo che implica il mettere da parte le proprie istintive posizioni per fare davvero il bene dell’altro.

GRAN TORINO ci aiuterà a trovare il fondamento di questa carità: in Cristo che è morto per noi. Rileggeremo questo famoso film come una grande parabola su Dio: dalle “leggi” dell’Antico Testamento, alla misericordia di Dio Padre, al suo morire sulla croce per prendere su di sé il male degli uomini. Dice il Papa: “l’essere fratelli in umanità e, in molti casi, anche nella fede, deve portarci a vedere nell'altro un vero alter ego, amato in modo infinito dal Signore.”

CENTOCHIODI


LUNEDI 5 MARZO ORE 15.30 E ORE 21.00
FILM DI ERMANNO OLMI
CENTOCHIODI (2007)

Genere: Metafora
Regista: Ermanno Olmi
Attori: Raz Degan (il professore, voce italiana: Adriano Giannini), Luna Bendandi, Amina Syed, Michele Zattara, Damiano Scaini, Franco Andreani, Andrea Landredi (postino), Franco Seroni (messo comunale), Roberta Marrelli (pubblico ministero), Bruno Tabacchi (preside), Carlo Feltrami (appuntato).
Tematiche: Gesù; Libertà; Metafore del nostro tempo; Solidarietà-Amore; Religiose;


Soggetto:
Una mattina il custode di una università bolognese arriva davanti alla biblioteca storica e non crede ai propri occhi: tantissimi libri, edizioni rare e preziose, sono sparsi sul pavimento aperti e trafitti con i chiodoni delle capriate. Autore del gesto é un professore di filosofia, giovane e già molto autorevole, deciso a lasciarsi alle spalle la "schiavitù" della pagina scritta per recuperare un rapporto nuovo con la vita quotidiana. Eccolo allora, arrivato su un argine del Po, sistemarsi in una casupola abbandonata, che a poco a poco diventa punto di riferimento delle persone che imparano a conoscerlo.

Valutazione Pastorale:
E' giusto accostarsi a questo film, sapendo che é l'ultimo diretto da Olmi? Potrebbe in un certo senso 'obbligare' a guardarlo come un film-testamento, la sintesi di quasi cinquanta anni di attività? Il rischio c'è, ed é forse inevitabile, avendo Olmi stesso tenuto a sottolineare con forza questa particolarità. "Chi raccontare? Chi ricordare fra tanti come esempio assoluto di umanità cui poterci riferire nei momenti bui per trovare sostegno e speranza? - dice il regista- E' scontato dire il Cristo? Si: il Cristo Uomo, uno come noi, che possiamo incontrare in un qualsiasi giorno della nostra esistenza, in qualsiasi tempo e luogo. Il Cristo delle strade, non l'idolo degli altari e degli incensi. E neppure quello dei libri, quando libri e altari diventano comoda formalità, ipocrita convenienza o addirittura pretesto di sopraffazione (...)". Così il copione mette al centro un giovane professore smarrito che si sveste (ma non di tutto) per ritrovare il contatto con la natura, e in lui noi pensiamo di vedere un Cristo moderno. Ma ci sbagliamo, perché lui si allontana e quelli che restano sono i contadini, i semplici, i puri di cuore: e sono loro, che noi incontreremo di nuovo. Gioca un po' a nascondino Olmi in questo suo racconto che si immedesima lieve nel passare delle opere e dei giorni, che ha la fragranza del pane appena sfornato e la pudica verbosità della burocrazia incombente. I contadini, il Po, la terra tornano ad essere per il regista bergamasco quell'unicum esistenziale e spirituale che é lievito di civiltà, di vita in comune, di rispetto reciproco. Crocifiggere i libri e rinunciare all'altare in nome di una religione da strada appare dunque come una provocazione tanto salutare quanto azzardata. Bisogna ascoltarlo Olmi, mentre pronuncia queste frasi, e scavare nella sua sofferenza di credente, che con sincerità disegna lo scenario del futuro in una Fede conquistata giorno per giorno nel contatto della vita concreta. Il film ha la semplicità del poemetto lirico e le cadenze ieratiche della parabola. Il professore scompare, e i contadini si sentono soli. Ne tornerà un altro? Olmi resta in ricerca, e noi con lui sappiamo che il Cristo della Fede non scompare mai, ma é con noi ogni giorno ed è con noi sull'altare, in ogni chiesa, luogo di pacificazione e di perdono.

IL VILLAGGIO DI CARTONE



27 febbraio ore 15,30 e ore 21

IL VILLAGGIO DI CARTONE (2011)

Genere: Drammatico

Regista: Ermanno Olmi

Attori: Michel Lonsdale (il vecchio prete), Rutger Hauer (il sacrestano), Alessandro Haber (il graduato), Massimo De Francovich (il medico), Elhadji Ibrahima Faye (il soccorritore), Irima Pino Viney (Magdaha), Fatima Alì (Fatima), Samuels Leon Delroy (il bardo), Fernando Chironda (il cherubino), Souleymane Sow (l'avverso), Linda Keny (madre), Blaise Aurelien Ngoungou Essoua (padre).


Soggetto:

Un luogo periferico, da qualche parte nell'Italia di oggi. Una vecchia chiesa viene dismessa. Gli operai lavorano per staccare quadri, togliere addobbi, smontare oggetti sacri. L'anziano parroco osserva tra incredulità e sgomento. Il suo sguardo è levato "...verso il culmine del presbiterio dove la sparizione del Grande Crocefisso è il compimento ultimo dell'atto sacrilego(...). Tuttavia, di fronte allo scempio della sua chiesa, il prete avverte l'insorgere di una percezione nuova che lo sostiene...Non più la chiesa delle cerimonie liturgiche, degli altari dorati, bensì Casa di Dio dove trovano rifugio e conforto i miseri e derelitti", come dice lo stesso Olmi.

Il villaggio di cartone” di Ermanno Olmi ha un’apertura lucida quanto inquietante, come il precedente film “Centochiodi” (2007). Dai semplici ma puri di “Centochiodi” siamo così passati ai migrati derelitti dalla pelle scura di “Il villaggio di cartone”.

L’incipit, anche stavolta, è sconvolgente. Un povero e vecchio parroco assiste impotente alla spoliazione degli arredi sacri della sua chiesa. I fedeli che un tempo gremivano lo spazio sacro sono svaniti. Quindi si chiudono i battenti. Il grande crocifisso posto in alto, al di sopra dell’altare, viene fatto scendere in terra, impacchettato e riposto in una cassa, da accatastare nel magazzino polveroso del passato. La messa è davvero finita.Sul vecchio sacerdote cala all’improvviso la disperazione. Avverte vivissima e bruciante l’approssimarsi della fine. Dolore, disperazione, impotenza. Splendida visualizzazione di una condizione temporale. Il tempo della desertificazione dello spazio religioso, che sta riempiendo di metastasi, almeno dalla seconda metà degli anni Sessanta del secolo passato, il corpo del cristianesimo occidentale. Una premessa così forte avrebbe meritato bel altro svolgimento e conclusione. Nella chiesa spogliata dei sacri arredi trova immediatamente riparo un nutrito gruppo di clandestini, arrivati dopo un viaggio in mare periglioso e in transito verso la Francia. Inaspettatamente il vecchio sacerdote scopre il significato autentico del sacerdozio (fino ad ora mai provato), e apprende anche quanto il mondo sia diventato ingiusto e vigliacco, poiché scaglia leggi odiose, rifiuto, disprezzo e persecuzione contro i poveri fuggitivi. Nelle ormai inutili mura di recinzione di una brutta chiesa di cemento, sorge il villaggio di cartoni. Da questo punto il film si trasforma in una sorta di teatro brechtiano, con il bene e il male separati con l’accetta. Fuori sono raffiche di mitra, elicotteri in volo, sirene spiegate, movimenti e luci di segugi armati e grida di aiuto. La Legge dei forti sta assediando i deboli al riparo nella casa di Dio. Anche fra i buoni c’è di tutto: prostitute dal cuore grande, fanatici della religione, kamikaze, saggi e colti, padri di famiglia, atei e devoti, sciacalli che approfittano delle debolezze dei propri fratelli. C’è chi ama l’intera umanità e chi invece ne disprezza una parte accusandola di avergli rubato il presente. Il vecchio sacerdote è il solo a difendere il branco dei disperati. Lo ha persino tradito, come Caino, il vecchio sacrestano. I medici dell’ospedale sono delatori. Meglio rivolgersi allora al medico del luogo, scampato da bambino al campo di sterminio. Lui cura i bisognosi e non bada al colore della pelle o alla condizione di clandestinità.


Valutazione Pastorale:

Il virgolettato sopra proposto è di Olmi stesso, contenuto nelle note informative, di una trama tanto scarna nei fatti quanto intensa nelle suggestioni. Gli 'ultimi' del nostro tempo sono identificati da Olmi nei profughi che arrivano sulle coste italiane, fuggendo da situazioni terribili, e chiedono aiuto e comprensione. L'extracomunitario, l'immigrato, il clandestino mettono oggi a dura prova la nostra capacità di dimostrarci cittadini del mondo. E se il tessuto politico-legislativo-burocratico appare talvolta incerto, indeciso, frenato da sterili contrasti, il richiamo evangelico ha il dovere di elevarsi alto e forte, di gridare il bisogno di un'unica famiglia umana, di ribadire che le porte del Signore sono sempre aperte. Tutto si svolge in interni, tra le pareti della chiesa e della sacrestia, tra le ombre che offuscano la mente e le luci che accendono il cuore. Olmi torna al cinema asciutto della meditazione e della preghiera. Come il protagonista, anche il regista è stanco, affaticato, in qualche momento meno incisivo: e il copione perde un po' lucidità. Ma la carica di spiritualità che emana dalle immagini è intatta. E interpella tutti.

Olmi non ha dubbi: più delle fede può il bene. Conclude il film una riflessione sulla necessità che gli uomini debbano cambiare il corso della Storia altrimenti sarà la Storia a cambiare gli uomini.

Del film il cardinale Gianfranco Ravasi (amico e consulente di Olmi per il film insieme a Claudio Magris) ha detto: «È una forte ed emozionante parabola con una netta impronta umana e civile ma anche con iridescenze cristologiche (…) ogni film di Olmi e ogni sua ricerca sono simili a una spada di luce che trapassa l’epidermide della storia per coglierne la carne e scendere fino al midollo delle ossa» (“L’Osservatore Romano”, 24 luglio 2011).

E il regista ha dichiarato «Non bisogna inginocchiarsi davanti al crocifisso, che è solo un simulacro di cartone, ma verso chi soffre come gli extracomunitari».

Nel suo film Olmi non si pone il problema di come mai il parroco abbia perso il gregge. Riduce una crisi epocale e drammatica - la secolarizzazione dell’Occidente cristiano - alla contingenza dei flussi migratori. Quando cinquant’anni fa le chiese cristiane (e non solo cattoliche) del Canada e dell’Inghilterra cominciavano a svuotarsi, la povertà nel frattempo stava scemando verticalmente (il meraviglioso boom economico) e l’immigrazione non esisteva.

La «teologia della liberazione», aveva lo scopo di scardinare la Chiesa come istituzione, per andare incontro alla realtà, scegliendo l’opzione dei poveri e degli ultimi, preferendo il bene alla fede, esattamente come il vecchio parroco, incarnazione di una visione della religione come pura immanenza terrena (i poveri, oggi sostituti da una nuova categoria sociologica, i migranti).

Ma la liberazione del mondo non può essere ridotta alla mera liberazione dalla povertà o dall’immigrazione: la vera liberazione è dal peccato.

Anche il vecchio Olmi vuole scardinare l’istituzione ecclesiastica (custode della fede) per cercare la salvezza nella barca spezzata e alla deriva dei fuggitivi. Oggi alla deriva è la barca di Pietro. Ma pensandoci bene, in conclusione, l’ultimo cinema di Ermanno Olmi è gnostico e scorretto.

Perché?

La semplificazione dell’apologo (perché di questo si tratta) è evidente. Ma troppo semplicistica.

Infatti se è vero che “più grande di tutto anche della fede, è la carità”, e che “misericordia io voglio e non sacrificio” e che “non chi dice ma chi fa la volontà del Padre entrerà nel Regno”…. è altrettanto vero che la carità è autentica nella misura in cui nasce dalla fede che riconosce che il vero “buon samaritano” è il Cristo crocifisso, che si è immolato per l’umanità, e può trovare solo nell’incontro col Cristo la sua ultima e autentica ragione e possibilità.

Pertanto contrapporre l’adorazione al crocifisso con la cura per il povero (come fa l’apologo di Olmi) è semplificazione scorretta e fuorviante. Ma, purtroppo, di questi tempi, “politicamente corretta”: sparare sulla Chiesa istituzione, in modo gratuito o pertinente che sia, è troppo facile e, ci sia consentito, scorretto, per chi da quel piatto ha sempre mangiato e che quel passo verso la scelta preferenziale degli ultimi, forse, non ha mai fatto.

La storia, e non l’ideologia anticattolica oggi dominante, ci dice invece che, a parte lodevoli eccezioni, lì dove il povero e il derelitto è amato, in qualunque parte del mondo avvenga, ciò è fatto in nome del Dio Crocifisso. Non di altri. E dentro la Chiesa.


Buona Visione

Ma come fa a fare tutto?



lunedì 20 febbraio ore 15,30 ore 21


Kate Reddy è una moglie, una madre, una donna in carriera ed evidentemente è dotata di abilità paranormali per come riesce a tenere tutto in equilibrio. La sua vita è frenetica, ma ha un marito fantastico, Richard, un architetto che di recente si è messo in proprio, due figli adorabili, Emily, che sta per compiere sei anni, e Ben, un bambino che la adora. Kate è anche una donna che ama il suo lavoro. È la responsabile degli investimenti nella filiale di Boston di una società finanziaria di New York, lavoro che spesso la porta a viaggiare, cosa che le complica non poco la sua vita familiare. I colleghi, gli amici e i parenti dicono tutti la stessa cosa quando parlano dell'abilità di Kate di conciliare ogni aspetto della sua vita: Ma come fa a far tutto?

TERRAFERMA




Lunedì 13 Febbraio ore 15.30 e ore 21.00
Soggetto:Sull'isola, Ernesto, 70 anni, non vuole rottamare il peschereccio. Il figlio Nino invece ha smesso di pescare e si dedica ai turisti. Filippo, 20 anni, ha perso il padre in mare ed è sospeso tra il nonno e lo zio. Sua madre, Giulietta, giovane vedova, capisce che il futuro è lontano da quell'isola. Un giorno dal mare arriva un gruppo di migranti. Tra essi, Giulietta accoglie Sara, un figlio piccolo, un altro che nasce poco dopo. Non possono restare nascosti, Giulietta e Ernesto cercano di farli scappare ma la sorveglianza è rigida. Giulietta sembra rassegnata a rinunciare. Filippo invece non lo è: rompe i sigilli del peschereccio sequestrato e in piena notte si lancia in mare aperto. Verso la terraferma.

Valutazione Pastorale:Dopo "Respiro" (2002) e "Nuovomondo" (2006), Crialese torna a Lampedusa dove, dice: "Ho trovato un luogo molto diverso da come lo ricordavo durante le riprese di 'Respiro'...il mio scoglio sperduto in mezzo al mare è adesso terra di frontiera". Da qui le due facce della storia. Da un lato il carattere chiuso e orgoglioso di Ernesto, che non rinuncia alle tradizioni; dall'altro il tema, difficile e scomodo, dell'immigrazione. Dopo aver girato intorno all'argomento in una sorta di diario di ciò che la cronaca recente ci ha raccontato, il regista trova una sintesi nel giovane Filippo, nella sua follia che rompe indugi e schemi e fugge verso nuovi 'mondi'. E' diritto naturale dell'uomo di andare, cercare, conoscersi, cambiare luogo. Ma poi ci sono le leggi che sempre l'uomo fa per organizzarsi in società, per darsi delle regole condivise. Tra qualche lieve forzatura e sbalzi di tensione, Crialese opta per un finale onirico e arrabbiato, metaforico e generazionale. L'ispirazione è sincera, lo svolgimento non sempre riuscito. Dal punto di vista pastorale, il film è da valutare come consigliabile, problematico e adatto per dibattiti.

NON LASCIARMI




Soggetto:Nel college di Hailsham (Inghilterra), tra i tanti piccoli allievi, ci sono Kathy, Tommy e Ruth. Quando diventano maggiorenni, i tre vengono avviato ad altri alloggi, in attesa che arrivi il loro turno. Li aspetta un destino di donatori di organi...

Valutazione Pastorale:All'inizio c'è il romanzo omonimo di uno scrittore giapponese, residente a Londra. Della sostanziale fedeltà e di qualche variazione rispetto alla pagina scritta, dirà chi ha letto l'originale. Di sicuro da tempo non si vedeva un copione in grado di infondere una così profonda lacerazione delle capacità interiori e affettive. Costruito con sottile forza metaforica sull'incontro tra un apparato imbolico/fantascientifico e una cornice di vigoroso, preciso, lucido realismo, il copione sfonda ben presto la soglia del 'possibile' per entrare in quella del 'vero' che chiede una difficilissima presa d'atto e una lacerante resa dei conti. La regia di Romanek affida ogni immagine all'inquietante costruzione di un'esistenza chiusa e predestinata, pronta a ribellarsi e subito respinta indietro. Il dolore scavato nelle pieghe dei giovani resta misterioso e inaccesibile, tra melodramma, orrore, rabbia impotente. Trappole della scienza, della medicina o del cuore? Film angoscioso che smuove riflessioni più filosofiche che spirituali e dal punto di vista pastorale, é da valutare come complesso, problematico e adatto per dibattiti.

LA PRIMA STELLA



Lunedi 30 Gennaio 2012

Soggetto:Jean Gabriel, sposato e padre di tre bambini, non lavora e passa il tempo nell'agenzia ippica vicino casa. Un giorno, un po' provocato dalla piccola Manon, promette che porterà tutta la famiglia in vacanza sulla neve.
Con mille espedienti per raccogliere i soldi necessari, infine Jean Gabriel riesce a partire. Con lui ci sono i tre figli e la nonna, sua madre Bonne, ma non la moglie Suzy, in polemica con il marito. Nella località alpina il gruppo vive tutte le inevitabili difficoltà legate alla presenza di un gruppo di colore, tra ironia e diffidenza.
Tuttavia alla fine Jean Gabriel riesce a farsi benvolere, e anche la moglie arriva a riunire interamente la famiglia.

Valutazione Pastorale:Da un lato c'è un padre che, stanco di sentirsi un nullafacente, prova a fare qualcosa per la propria famiglia.
Dall'altro la 'novità' che si tratta di un nucleo familiare misto, lui di colore, lei bionda, i figli a metà. Su questi due fronti la commedia gioca tutte le carte di un racconto di disavventure, imprevisti, equivoci, secondo la tradizione più tipica del genere. Il tono scherzoso predominante toglie problematicità agli argomenti trattati a favore di un approccio ironico, disincantato, divertito. Fermo restando l'intento di mettere alla berlina i rigurgiti di razzismo purtroppo sempre presenti. Da punto di vista pastorale, il film é da valutare come consigliabile e nell'insieme semplice.

THIS MUST BE THE PLACE



Lunedì 23 Gennaio 2012 ore 15.30 e ore 21.00

Soggetto:
Oggi cinquantenne, l'ebreo Cheyenne (che non ha rinunciato a rossetto, cerone e lunghi capelli gonfiati intorno al viso) vive a Dublino con la moglie Jane, cercando di gestire il proprio passato di grande rock star tra ribellione e depressione. Quando da New York arriva la notizia che l'anziano padre è in fin di vita,
Cheyenne (che non lo vede da 30 anni) si decide a partire. Non fa in tempo a vederlo prima della morte, e, attraverso la lettura di alcuni diari e l'incontro con chi lo ha conosciuto, apprende che l'uomo era impegnato nella caccia ossessiva al criminale nazista che lo aveva torturato in Germania durante l'Olocausto.
L'aguzzino vive negli Stati Uniti, e Cheyenne decide di proseguire la ricerca del padre. Gli indizi lo portano in zone remote dell'Utah, dove, tra freddo e neve, l'uomo viene rintracciato...

Valutazione Pastorale:
Ecco il film nato dall'incontro tra Sorrentino e Sean Penn durante la serata finale del festival di Cannes 2008, l'americano presidente di giuria, lui premio della giuria stessa per "Il divo". Spiega Sorrentino: "Da un lato il dramma dei drammi, l'olocausto, dall'altra il suo avvicinamento ad un mondo opposto, fatuo e mondano per definizione, quale quello della musica pop e di un suo rappresentante, ormai fuori dal giro e abbandonato ad un'esistenza oscillante tra la noia e il leggero stato depressivo". La storia comincia in Irlanda ma poi riserva la parte più corposa agli States. "I luoghi americani (il deserto, le stazioni di servizio, i bar bui coi banconi lunghissimi, gli orizzonti lontanissimi) sono un sogno -dice Sorrentino- e, quando ci sei dentro, non diventano reali ma continuano ad essere sogno...". Tra i due punti si muove il protagonista, uomo che ha scelto un modo di fare un po' infantile, segnato da un umorismo secco e tagliente, amaro e generoso. La ricerca del nazista, portando lo script 'on the road', taglia il racconto. La regia sale in primo piano: Sorrentino è bravo a inquadrare località e persone, a restituire i sapori di atmosfere, umori, sensazioni; ma così facendo perde i raccordi con il copione. In questo modo la parte finale cala di tensione, troppo estetizzante e poco incisiva nei confronti dei temi affrontati. Il regista europeo affronta da 'autore' la mitologia americana, e ne esce con qualche ferita. Resta un prodotto pensato e condotto con coraggio, segno di crescita professionale e che, dal punto di vista pastorale, è da valutare come consigliabile e nell'insieme problematico.

16 gennaio Vai e Vivrai



Genere: Drammatico
Regista: Radu Mihaileanu
Attori: Moshe Agazai (Schlomo bambino), Moshe Abebe (Schlomo
adolescente), Sirak M. Sabahat (Schlomo grande), Roschdy Zem (Yoram),
Roni Hadar (Sara), Yael Abecassis (Yael), Mimi Abonesh Kebede (Hana),
Raymonde Abecassis (Suzy), Rami Danon (Papy), Meskie Shibru Sivan
(madre di Schlomo)

Durante la carestia che nel 1985 flagella l'Etiopia, Israele e Stati Uniti organizzano l'operazione Mosé con l'obiettivo di far espatriare gli ebrei etiopi detti Falascià e condurli nella Terra Promessa. Il piccolo etiope Schlomo viene spinto dalla madre a fingersi ebreo per uscire dal Paese e salvarsi la vita. In Israele viene preso per orfano e adottato da Yoram e Yael, coppia israeliana con due figli. Ma Schlomo fatica ad integrarsi nella cultura locale e mantiene sempre vivo il desiderio di rivedere la madre. Cresciuto, conosce la coetanea ebrea Sarah che si innamora di lui, ma insieme sperimenta anche momenti di razzismo a scuola e nella
società. Trova conforto solo nel maestro Qes Amhra che lo aiuta ad entrare in corrispondenza postale con la madre e al quale confida la verità sulla propria storia. Quindi parte per Parigi per studiare medicina.
Diventato medico, si arruola, sperimenta gli orrori della guerra nei territori occupati, viene ferito gravemente. Assistito dalla famiglia adottiva e da Sarah, si decide finalmente a sposarla. Ma quando le rivela di non essere ebreo, la ragazza lo lascia. Solo grazie all'intervento di Yael, Sarah si convince a cambiare idea e a
tornare da lui. Ora il ragazzo diventato uomo può tornare in Etiopia per riabbracciare la madre.

Valutazione Pastorale:
Circa sette anni fa il regista rumeno Radu Mihaileanu si impose all'attenzione internazionale con "Train de vie", storia amaramente comica di persone che per sfuggire dai nazisti indossavano le loro divise. Dopo un titolo passato quasi sotto silenzio ("Ricchezza nazionale"), ecco l'autore di nuovo alle prese con una storia di
popolazioni che fuggono, che lasciano radici sicure per affrontarne altre che nascondono insidie e rischi.
Questa pagine riguardante gli ebrei etiopi é certo poco conosciuta e molto opportuna é la scelta di riproporla,prendendo però poi a protagonista un personaggio che invece ebreo non é. Questo punto di partenza consente al regista di dare il via ad un ampio e vibrante scenario sociale/politico/religioso, dentro il quale
trovano spazio le mille sfaccettature dei complessi problemi in atto sullo scacchiere mediorientale. La famiglia lontana e la famiglia acquisita, l'essere ebreo alla nascita e il 'diventarlo', la religione come pienezza di vita o come motivo di contrasto: aspetti forti della storia, che si intrecciano con il 'fare memoria', con il ruolo dei singoli e dei gruppi, con le lacerazioni dei sentimenti e delle attese. Un storia-denuncia, nella quale l'amore prevale sul dolore, senza retorica e cone quilibrio. Forse 150' alla fine risultano tanti, ma il regista
tocca con giustezza le corde della sofferenza e della commozione e ci fa sentire partecipa di una comunità più ampia e sopra ogni confine. Dal punto di vista pastorale, il film é da valutare come raccomadabile, problematico e adatto per dibattiti.